…esisteva l’arte, la letteratura, il teatro, il cinema.
Un tempo si rideva; si vedeva e si sentiva.
Un tempo si piangeva; si vedeva e si sentiva.
Un tempo c’era la televisione di intrattenimento. Oggi sei trattenuto dalla televisione in una sorta di bolla depressiva.
Un tempo si poteva abbracciare un amico, un parente, si davano due baci sulle guance e dopo averlo fatto ci sentivamo bene, un tempo…
Un tempo si poteva parlare di tanti argomenti anche di quel calcio, alle volte insopportabile, che ti permetteva di gioire, di esultare o d’incazzarti se la tua squadra ti deludeva. Lo facevi allo stadio, al bar e a casa con gli amici. Ora il suono delle notifiche del tuo smartphone sovrasta quello di un goal. Ora non sai nemmeno se la partita verrà giocata.
Un tempo le squadre sportive erano in ritiro, adesso sono in quarantena.
Un tempo si faceva all’amore, ci si guardava negli occhi, ci si baciava e si provavano sensazioni e pensieri che erano anni luce dal “mi avrà contagiato/a”?
Un tempo si facevano feste, si ballava insieme, più o meno stretti, come ci andava, senza troppi freni. Un tempo…
Un tempo se ti fermavano le forze dell’ordine esibivi patente e libretto, adesso mascherina e certificato medico col responso negativo del tampone. Probabilmente se non indossi la cintura di sicurezza non frega più a nessuno, basta che indossi la mascherina, da solo, in auto…
Un tempo se entravi in una banca dovevi essere riconoscibile, adesso sei ben accetto solo se ti copri naso e bocca e se soprattutto vai a chiedere un finanziamento garantito dallo Stato.
Un tempo andavi a correre e qualcuno ti diceva: “beata gioventù” o “che atleta”, alle volte sfottendo, alle volte a ragion veduta. Oggi se vai a correre ti mandano contro droni e forze dell’ordine.
Un tempo “asintomatico” era una persona che stava bene e che poteva condurre una vita normale. Oggi è il nuovo malato, quello dal quale bisogna stare lontani e per qualcuno anche da isolare.
Un tempo entravo in un negozio e facevo la fila alle casse. Oggi faccio la fila per entrare e spesso alle casse non c’è nessuno.
Un tempo andavi in un ospedale per farti curare, oggi ci vai per sperare di non farti intubare e se devi curarti, spesso, non puoi; esami e interventi chirurgici sono rimandati. Oggi si tratta solo chi ha a che fare col Covid o chi col Covid vuol avere a che fare.
Un tempo facevi la fila in auto per andare al mare, oggi la fai per farti fare un tampone, dopo aver respirato smog per ore e facendoti infilare dal finestrino un bacchetto nel naso e nella gola.
Un tempo da quel finestrino, ai drive in, arrivavano belle ragazze su pattini a rotelle che ti portavano vassoi con sopra dei gustosi milk shake da gustare. Un tempo…
Oggi se parli di prevenzione, di sistema immunitario, di microbioma intestinale, di Vitamina C, D3, K2, Zinco… sei un tipo strano, newage, un po’ hippy, nella migliore delle ipotesi, altrimenti sei un bufalaro, antiscientista, incosciente, irresponsabile e se sei medico sei sicuramente da radiare.
Un tempo se cercavi di capire, conoscere, approfondire e dibattere su ciò che avevi compreso, eri una persona intelligente. Oggi sei un negazionista, a prescindere, o ti allinei e accetti tutto o sei un pericolo per la società, e poi “cosa vuoi capirne tu di queste cose, non sei uno scienziato.”
Un tempo c’erano le gare di rutti… fallo oggi con la mascherina. Un tempo, c’erano anche concerti e cantanti. Adesso canti in doccia, da un balcone o da una terrazza, da solo ma purché rigorosamente in streaming video.
Un tempo salivi su un mezzo pubblico pensando che il problema potesse essere la mano sul culo o un portafogli scippato. Adesso devi pensare ad indossare la mascherina e mettere il gel disinfettante cercando di essere accorto… alla distanza che tieni col tuo prossimo, non si sa mai che sia “infetto”.
Un tempo i bimbi andavano a scuola e alla ricreazione giocavano insieme, si rotolavano per terra, si sbucciavano le ginocchia, q.b., prendendosi anche qualche rimproverata dalle maestre, poi anche a casa dai genitori. Adesso i bimbi sono avvolti in un packaging a prova di tutto purché nulla sia possibile fare.
Un tempo i bimbi a scuola mangiavano a mensa, oggi seduti al proprio banco senza potersi alzare.
Un tempo i bimbi andavano alle feste di compleanno e stavano insieme, ridevano, scherzavano, crescevano insieme, riconoscendosi e riconoscendo le reciproche emozioni, guardandosi in volto e ascoltandosi mentre interagivano. Un tempo…
Un tempo dopo il volto della mamma e del papà i bimbi ricordavano il volto delle loro maestre, oggi ricordano il colore della mascherina che indossano. Un domani, da adulti, diranno: “come era bella… la mascherina della mia maestra delle elementari”.
Un tempo i militari erano al servizio e a difesa del cittadino, oggi sono chiamati dallo Stato a intimare di indossare la mascherina e, come se ciò non bastasse, anche a sanzionare i liberi respiratori.
Un tempo entravi in un ristorante e ti chiedevano dove volevi sedere e cosa desideravi mangiare. Oggi ti chiedono di mettere il disinfettante, di misurare la temperatura, di indossare la mascherina e di lasciare un recapito, non per indagini sulla qualità del servizio ma per rintracciarti nel caso in cui fosse rilevata una positività al Covid.
Un tempo, in un ristorante, se ti alzavi per andare in bagno, lo facevi e basta… oggi ti alzi e devi indossare la mascherina, pensando di fermare un virus semplicemente spiazzandolo, giocando a nascondino stando in piedi o mostrandosi stando da seduti. Non so se “lui” ci casca ma noi ne siamo convinti, questo evidentemente basta, scientificamente parlando.
Un tempo…
Tornerà quel tempo e forse anche un tempo migliore di quello che era. Tornerà se torneremo a vivere. Tornerà se metteremo la mascherina alla televisione e ai giornali. Tornerà se decideremo che l’evidenza è scienza e che non è scienza quella che non si confronta con le evidenze. Tornerà se prenderemo quella manciata di numeri e cominceremo a leggerli come devono essere letti e compresi e non come ci limitiamo a sentire, accettando tutto di buon grado.
Tornerà se metteremo d’accordo ragione e cuore.
Tornerà se vorremo farlo tornare, se capiremmo che la vita è una e che merita di essere vissuta ogni giorno, intensamente. Non c’è modo di rivivere ieri ma solo sperare di poter vivere il domani. L’oggi merita un investimento di tutto il nostro essere per poterlo vivere con gioia, regalando gioia.
Non ti sentire in colpa nel voler vivere ma solo se vivrai senza aver vissuto.
Ho deciso di parlarvi di chemioterapia; di quella a cui mi sono sottoposto.
Ho deciso di farlo per dare un messaggio a coloro che si trovano a dover affrontare un percorso chemioterapico e in questo momento vivono un conflitto interiore dominato da mille domande e altrettante incertezze.
Ho deciso di farlo per informare i parenti dei pazienti oncologici che sono coinvolti emotivamente in questo percorso e che necessitano di informazioni “meno istituzionali” e più pratiche: da chi ha provato sulla propria pelle un trattamento chemioterapico.
Vi racconterò cosa ho vissuto, per darvi modo di capire e forse di trovare qualche argomento utile per aiutarvi ad affrontare con più consapevolezza il vostro percorso.
Se siete di quelli che preferiscono “affidarsi”, senza sapere, il mio consiglio è di NON proseguire nella lettura di questo post. Diversamente, se siete tra quelli che hanno bisogno di avere elementi concreti per elaborare un proprio pensiero, ecco che questo post potrebbe offrirvi quanto state cercando.
NOTA per i più sensibili: Più avanti troverete un paio di foto che mostrano: una l’infusore automatico per chemioterapia e l’altra il mio braccio sul quale è applicato l’ago col relativo cannello per la somministrazione dei farmaci. Avvertiti…
Usando una metafora cinematografica, questo post è uno “spoiler” su quanto avviene, in certe condizioni, per certe forme di cancro, durante il trattamento chemioterapico.
Prima di tutto ci tengo a precisare che NON sono un medico ma un ex, spero, malato dicancro al seno. Sono un uomo tra quei 130 casi circa all’anno che in Italia coinvolgono la popolazione maschile con questo “alieno”.
Altra cosa che mi preme riportare in queste righe è che NON esiste “LA” chemio ma esistono vari trattamenti chemioterapici, ognuno formulato per una specifica neoplasia.
Non solo, per la stessa forma di cancro non esistono trattamenti identici. Ogni terapizzato viene sottoposto a serie valutazioni da parte del GOM (Gruppo Oncologico Multidisciplinare) che raggruppa vari medici specializzati in vari campi della medicina che prendono in esame ogni singolo caso, lo studiano e di concerto decidono quale specifico protocollo terapeutico adottare. Ogni GOM stabilisce tempi, dosi e tipologia di farmaci da impiegare per ogni paziente, secondo delle linee guida dettate dalla comunità scientifica internazionale e che tengono in considerazione, oltre la patologia di per sé, anche il sesso, l’età, il peso corporeo e lo stato generale di salute della persona.
In virtù di questo, se il vostro trattamento NON prevede l’uso di TAXOLO e TRASTUZUMAB, e a chemio conclusa l’impiego del TAMOXIFENE, non starete per affrontare il mio stesso protocollo terapeutico (e che in parte sto ancora seguendo). Potete quindi risparmiarvi il resto del post. In caso contrario, vi invito a proseguire nella lettura con la speranza di potervi dare utili informazioni.
Finite le raccomandazioni… cominciamo!
“Non tutte le chemio vengono per nuocere”
…è il modo di darvi il mio personale messaggio positivo, se in questo momento vi trovate a dover iniziare un percorso di chemioterapia e non sapete né cosa vi aspetta né quali effetti avrà su di voi.
Ciò che posso raccontarvi è ciò che è accaduto a me, senza aggiungere o togliere nulla. Mi permetto solo di dirvi che l’atteggiamento mentale è tutto, sempre e comunque, più che mai in questi momenti. Pertanto… abbattersi non serve a nulla, anzi, NON giova assolutamente al vostro fisico e soprattutto alla vostra mente. I primi passi sono i più difficili, quelli incerti, fatti “al buio”. So che le cose vi sembreranno strane, difficili, anche assurde e incomprensibili. Ognuno troverà il proprio modo di affrontare la cosa ma vi assicuro che il migliore di tutti è pensare al presente e godere al massimo delle cose belle della vita. Il cancro è un “alieno” che oramai è diffuso in tutto il mondo; questo grazie a ciò che l’uomo continua a fare su questo pianeta, in barba a qualsiasi concetto di equilibrio, rispetto per l’ambiente e quindi per noi stessi. Detto ciò… poniti meno “perchè” e stampati più “smile” 🙂
Non solo… è arrivato il momento di tagliare i “rami secchi”: se accanto a te gravitano “persone che si piangono addosso” e che fanno del tuo problema il loro problema, il mio consiglio è di farti da parte (o farle da parte) e di non dare troppo spago a questi soggetti. Spesso tendono a tirarti dentro il baratro e ad assorbirti energie. Ora devi pensare a te, tutte le energie ti serviranno. Viceversa, attrai a te le persone positive e che ti amano. E’ il momento giusto per mettere alla prova il significato della parola “amore”.
Altra cosa, importante: ricorda sempre che c’è chi sta combattendo la stessa battaglia o di peggiori; quindi, non sei l’unico/a e soprattutto non sei solo/a.
Prima di addentrarci in certi argomenti, per sdrammatizzare un po’, ho deciso di inserire tra queste righe, non a caso, un estratto dal film Frankenstein Junior di Mel Brooks.
A questo punto…
Occorre che vi specifichi che nel mio caso il trattamento chemioterapico è stato ritenuto necessario dal GOM perchè, a seguito dell’intervento chirurgico, sono stati adottati i protocolli preventivi per fare in modo che le cellule tumorali, eventualmente ancora presenti nell’organismo o quelle che potrebbero, per qualche ragione, formarsi successivamente, possano avere “vita breve”. In pratica, l’intento è di creare un “ambiente ostile” al proliferare delle cellule cancerogene di quella particolare forma di cancro, evitando così delle recidive. Quindi, se fai la chemio per il cancro al seno, come nel mio caso, non è che di fatto sei “protetto/a” da tutte le neoplasie. Magari fosse così… Mi piace pensare che sei “meno vulnerabile” rispetto a quella che ti ha già colpito; anche se poi, aimè, conosco persone che hanno avuto una recidiva anche dopo essersi sottoposte a trattamento chemioterapico. Questo si chiama karma, sfiga, destino o come vuoi… io lo chiamo semplicemente “vita”.
Prima accetti tutto questo e prima troverai il modo e il tempo per apprezzare “il bello” che questa esperienza ti può portare… Sembra strano ma troverai anche il lato positivo che non si esaurisce col fatto che farai la chemio per prevenire o guarire dal cancro ma che grazie a questa esperienza vedrai che intorno a te “succederanno cose”, conoscerai persone e avrai modo di conoscere meglio te stesso/a, compresi i tuoi limiti e le tue capacità.
La mia chemio
Ho cominciato la mia prima chemio il 2 di febbraio 2018. Il programma prevedeva una chemio alla settimana per un totale di 12 settimane. Posso dirvi che alla vigilia della prima infusione ero molto teso, più che altro per l’incognita del trattamento e degli effetti che avrei potuto manifestare di lì a poco. Non solo, al termine di uno degli incontri pre-chemio col mio medico oncologo ne sono uscito con una busta di farmaci “da usare in caso di emergenza”. L’intento era di poter avere, al bisogno, un farmaco per ogni tipologia di effetto collaterale si fosse presentato nel corso del trattamento. Non è che di fatto questo ti pone mentalmente in una condizione di tranquillità ma, come si dice… “prendi e porti a casa” e così ho fatto.
Cosa avviene in pratica?
Dietro preciso appuntamento, programmato insieme al medico oncologo e confermato dal reparto di oncologia ad ogni vigilia del trattamento, arrivi all’ospedale e attendi che il tuo nome venga annunciato tramite altoparlante. Io scelsi di effettuare i trattamenti tutti i venerdi alle ore 14.00 in modo tale da “non guastare più di tanto” la mia settimana lavorativa e, qualora fosse stato necessario, avere a disposizione il weekend per riprendermi.
Ti accoglie un’infermiera che ti conduce alla stanza dove verrà effettuato il trattamento e ti fa accomodare su una poltrona regolabile nell’inclinazione, altezza, etc… Diciamo che è piuttosto comoda anche se ovviamente quando sei lì pensi che staresti meglio in ginocchio sui ceci ma a casa tua. Comunque, ti siedi cercando di trovare la posizione più confortevole mentre l’infermiera prepara l’apparecchio che regola l’infusione dei farmaci e le varie dosi di medicinali che dovranno essere iniettati secondo una precisa sequenza.
Ognuno di questi prodotti è contenuto in un singolo contenitore da flebo, di grandezze variabili, e viene inoculato nella sequenza prevista: dal primo all’ultimo.
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Non ho voluto farmi applicare né PICC (Peripherally Inserted Central Catheter, catetere centrale inserito perifericamente) nè PORT o (Port-a-cath) –vedi link di approfondimento-. Sono due dispositivi che permettono un più facile accesso venoso. Entrambi vengono applicati al paziente (l’uno o l’altro) prima di iniziare il primo trattamento e di solito vengono rimossi dopo aver ultimato tutti i cicli di chemioterapia. Da questi dispositivi si inserisce l’ago dal quale passeranno i farmaci e attraverso i quali si effettuano i prelievi di sangue per i vari controlli, senza dover praticare nuovi fori nelle vene. Sono una sorta di “portale di accesso facilitato”. Non mi sono voluto far applicare né l’uno né l’altro dispositivo perché ritenevo che potessero solo darmi un gran fastidio. Sono un professionista abituato a muovermi per lavoro e solo a pensare di avere un “aggeggio” inserito in una vena, e di dovermelo portare a giro per mesi, non mi andava giù. Ho delle grosse e robuste vene, avrei comunque potuto farmi applicare uno dei due suddetti dispositivi anche a trattamento iniziato, qualora avessi riscontrato problemi causati dal farmaco chemioterapico: tra i possibili effetti collaterali ha un’azione “sclerotizzante” delle vena che riceve le infusioni. Dopo varie chemio, possono irrigidirsi le pareti venose e manifestarsi degli ematomi. Ho tentato “la sorte” e ho cominciato a farmi bucare con il normale sondino da flebo; come si vede nella foto sopra riportata. In pratica: 12 buchi sul braccio destro per la chemio e altrettanti sul sinistro per i prelievi del sangue.
Tra un flacone da flebo e l’altro la macchina che si occupa di pompare i farmaci emette un segnale acustico non appena il prodotto contenuto nel flacone è esaurito. I beep scandiscono le tue giornate trascorse nella sala delle chemioterapie. Al beep della macchina corrisponde un beep che azioni volontariamente tramite un apposito pulsante che serve per segnalare alle infermiere che occorre sostituire il flacone appena esaurito.
Nel mio caso posso solo dire che a Prato, presso l’Ospedale Santo Stefano, sono stato assistito in modo meraviglioso e puntuale. Le infermiere sono competenti, gentili e premurose. Non ho mai atteso oltre il ragionevole tempo che occorre alle operatrici sanitarie per intervenire su ogni singolo paziente che le chiama per il cambio della flebo o per altri interventi. Tutto è sapientemente eseguito e condotto a termine grazie all’esperienza pluriennale del personale del reparto di oncologia che pur muovendosi in modo rigoroso e professionale non è esente dal dispensare sorrisi e parole di sincero interesse per lo stato di salute di ognuno. Grazie!
Nella “stanza della chemio” puoi essere in compagnia di altri pazienti. Le poltrone a disposizione nel reparto di Prato sono tre per stanza quindi al massimo puoi trovarti con altri due “compagni di avventura”…
C’è la televisione; se vuoi vederla, se ti piace e soprattutto se non viene monopolizzata dalla “tipa” amante delle telenovelas o delle trasmissioni “da diabete” che imperversano i palinsesti televisivi di primo pomeriggio. Dico da diabete perché spesso sono caratterizzate da storie mielosissime, il tutto infarcito da una buona dose di personaggi “creativi”, “alternativi” e di “tendenza”..mah… Un affettuoso saluto a Caterina Balivo! 🙂
Quanto dura la chemio?
Tra tutto, e intendo inserire nel compendio quel minimo di attesa, la preparazione, le infusioni e il tempo necessario per “ricomporsi” per poi uscire dall’ospedale, mi andavano via circa due ore e mezza, due ore e quaranta. Di per sé la chemio dura un paio d’ore ma passano abbastanza velocemente.
Mia moglie mi ha sempre accompagnato, trascorrendo con me tutto il tempo necessario. Questo mi è stato di grande conforto. Col passare delle settimane il nostro è diventato una sorta di appuntamento intriso di piacevoli rituali che rendevano l’evento stesso un momento di reciproco coinvolgimento e d’amore. Un esempio su tutti, potrei riportarne tanti, mia moglie preparava una borsina all’interno della quale ci metteva la bottiglia dell’acqua, una vaschetta con delle mele spezzettate e qualche mandorla sgusciata. Consumavamo insieme questo “pic-nic” durante la seduta e alla fine della chemio mi faceva trovare un regalino; cose semplici ma per me preziose, di grande conforto e anche inaspettate; soprattutto all’inizio dei primi trattamenti. Sono fortunato ad averla incontrata! Oltretutto è lei che mi ha salvato la vita.
Il Trastuzumab
Oltre alla chemio, ogni tre settimane (lo sto facendo tutt’ora) mi viene somministrato il Trastuzumab. Solo per pronunciare il nome mi ci sono volute dei mesi e tutt’oggi mi trovo spesso in difficoltà, tant’è che preferisco chiamarlo “la divinità atzeca” perchè il nome mi ricorda appunto una divinità ancestrale o una sua “maledizione” 🙂
Insomma…
questo farmaco, detto “intelligente”, e sul quale mi sono potuto esprimere in merito a questa definizione in un mio precedente post, viene somministrato tramite iniezione nella coscia, sotto cute. L’infermiera spinge il liquido contenuto nella siringa dosando la pressione in modo tale da inocularlo nell’arco di tempo di circa 5 minuti. In pratica deve iniettarlo molto lentamente. Non fa male; dà solo un po’ di fastidio all’inizio, appena entra il liquido o se viene esercitata un po’ troppa pressione sullo stantuffo della siringa. Quindi, ogni tre settimane, durante la tua chemio, nel corso delle due ore circa che sei lì, arriva l’infermiera e ti fa la puntura di Trastuzumab nella coscia. “Non ci facciamo mancare nulla”.
Nota a margine per il produttore dell’Trastuzumab: “ma non sarebbe possibile rendere disponibile questo farmaco sotto forma di cerotto transdermico?” Come i cerotti alla nicotina o quelli che contengono antidolorifici, per intenderci. Sarebbe un vantaggio sia per gli infermieri, che in quei minuti potrebbero dedicarsi ad altro, sia per i pazienti che devono starsene immobili a farsi iniettare “la maledizione atzeca” per cinque minuti, oltretutto dovendo andare in ospedale, anche dopo la chemio, per fare solo questa iniezione.
In conclusione:
Le 12 settimane sono passate. Al netto di tutto devo dire che ho trascorso i tre mesi di chemio tra alti e bassi ma mai bassi da provocarmi vomito, dolori di stomaco o altro del genere. Vi dico esattamente cosa ho avuto:
Effetti collaterali:
Stanchezza: fin da subito è arrivata la stanchezza che poi si è mantenuta su livelli sopportabili fino alla nona seduta chemioterapica. Dalla decima all’ultima sono stato peggio: stanco, alle volte stanchissimo. Mi ricordo che una domenica sono dovuto andare a letto di pomeriggio perché non avevo fiato per fare nulla. La stanchezza è proseguita anche per tutte le due settimane dopo l’ultima chemio.
I capelli: non li ho persi; si sono solo fermati nella crescita. Me li ero rasati prima di iniziare la prima chemio. Non volevo farmi “prendere alla sprovvista” e soprattutto “non volevo che il gioco” fosse condotto dalla chimica. Ho preferito “far piazza pulita”. Durante i mesi di trattamento si è fermato tutto, fatta eccezione per la crescita della barba che ha continuato ad essere presente sul mio viso, se pur con minor vigore e rapidità. Ho risparmiato un po’ sui rasoi.
Acne: sono tornato adolescente. Verso la metà del trattamento ho cominciato a manifestare acne sul volto, soprattutto sulla fronte e sul torace. Mi sono riempito ma il tutto ha cominciato a regredire poco dopo l’ultima chemio per poi scomparire del tutto dopo un paio di settimane.
Appetito: non è cambiato assolutamente nulla. Mi era stato detto che probabilmente mi sarebbero cambiati i gusti; che alcuni alimenti che ero abituato a consumare mi avrebbero disgustato. Nulla di tutto questo. Mangiavo prima, mangiavo durante, mangiavo…
Unghie: Talvolta possono scurirsi o in alcuni casi possono anche sollevarsi dalla falange. Nel mio caso si sono appena scurite nella parte terminale, verso l’estremità della falange. Un effetto cromatico che è durato parecchie settimane e che è comparso dopo l’ultima chemio… probabilmente l’undicesima e la dodicesima chemio, per me, sono state “un po’ troppo”: alcuni effetti si sono manifestati proprio al termine dei trattamenti. Comunque, anche questa “manifestazione soprannaturale” è un lontano ricordo.
Oggi:
Subito dopo aver terminato l’ultima chemioterapia ho riportato all’ospedale i farmaci, intonsi, di cui sopra. E’ stata una liberazione!
Sto continuando il trattamento ogni tre settimane con Trastuzumab e da circa una quarantina di giorni ho iniziato la terapia ormonale col Tamoxifene. Terapia che mi accompagnerà per tutto un lustro e per la quale, per adesso, non posso esprimermi in termini di sensazioni/effetti se non per un po’ di pesantezza alle gambe che avverto soprattutto da metà giornata in poi. Occorre inserire “nella terapia” anche la camminata, almeno una buona mezz’ora al giorno. Purtroppo non sempre riesco a farla ma ci sto lavorando per migliorare il mio impegno in tal senso. Dopotutto, chemio o non chemio, dovremmo camminare tutti almeno una mezz’ora al giorno.
Controlli:
In tutto questo percorso sei sempre seguito/a dal tuo medico oncologo. Durante la chemio lo incontri ogni tre settimane e poi ogni 6. Continui a fare analisi del sangue a partire da quelli di routine che vengono effettuati il giorno prima della chemioterapia il cui esito stabilisce o meno l’autorizzazione ad effettuare la chemio il giorno successivo. Fai altri controlli come l’ecocolordoppler che permette di monitorare lo stato di salute del cuore. Il Trastuzumab può agire sul muscolo cardiaco ed è bene avere sempre la situazione sotto controllo.
Conosco tante persone sottoposte a chemioterapia. Ognuno ha la propria storia; ognuno ha il proprio fisico e una mente che reagisce in modo esclusivo. Anche tu supererai questo momento, troverai le forze per farlo, volente o nolente. L’importante è, come ti ho scritto all’inizio di questo post, NON abbattersi, stamparsi in volto un bello “smile” e andare avanti. Se poi avrai i tuoi momenti “down”, prendili come tali, sono momenti e passeranno anche quelli.
Ho avuto il piacere e l’onore di visitare il villaggio allestito in occasione della IBCP Dragon Boat Festival 2018che si è tenuta a Firenze nei giorni 6-7-8 luglio. Ho conosciuto tante persone e ho visto migliaia di donne operate di cancro al seno. Donne affiatate, solidali, coinvolte in un progetto sociale e sportivo che le unisce a livello mondiale. Ben 120 squadre in gara provenienti da 18 nazioni per un totale di circa 4000 partecipanti. Tutte donne che hanno vissuto l’esperienza del cancro al seno. La maggior parte di queste sono state sottoposte a chemioterapia e oggi pagaiano, in squadre da 20 persone ciascuna.
Col mio amico Paolo di Roma, accompagnati da mia sorella e dalla mia inseparabile moglie, abbiamo girato in lungo e largo il villaggio, potendo stringere la mano a tante donne. Tra queste abbiamo scovato anche tre uomini che oltre a me e Paolo erano stati operati di cancro al seno.
Questa è la foto che ritrae i “magnifici 5”; quello a bocca aperta sono io 🙂 Da sinistra: Frank dalla Germania, io da Prato, Paolo da Roma, Mark dall’Irlanda e André dal Canada.
Voglio salutare questi compagni di avventura e, a voi che state per intraprendere un importante e lungo percorso, auguro tutto il bene possibile.
Cercate di parlare con la gente per invitare tutti a FARE PREVENZIONE, ANCHE GLI UOMINI PER IL CANCRO AL SENO. Tra questi 5 che vedete in foto io sono il più fortunato, quello al quale il cancro al seno è stato diagnosticato in fase più precoce, grazie a mia moglie. Questo ha voluto dire: intervento chirurgico meno invasivo e trattamenti più mirati.
Il mio messaggio si riassume in questa immagine che accompagna la mia campagna di sensibilizzazione sul cancro al seno maschile:
IKEA segna un altro punto a suo favore con lo spot dedicato al Natale. Il “piccolo uomo di casa” ci racconta una nuova storia fatta di tradizione, semplicità, famiglia e buoni sentimenti.
Natale fa rima con commerciale e i pubblicitari da sempre lo sanno, almeno da quando CocaCola, negli anni ’30, rilanciò in modo globale l’immagine di Santa Claus. Da allora il Natale, lasciando perdere le questioni religiose, ha assunto un’iconografia ben precisa che nella tradizione americana e nord europea ha trovato terreno fertile per poter germogliare e svilupparsi nel corso dei decenni.
Il Natale è una grande opportunità commerciale attorno alla quale ruotano prodotti e servizi che in un modo o nell’altro contribuiscono a rafforzare l’immagine stessa di questa festività, riuscendo a plasmarla, decennio dopo decennio, adattandola agli usi e costumi della gente in modo camaleontico, pur mantenendo fermi alcuni elementi che sono insiti nel DNA del Natale “laico”. Parlo delle luci, i colori e le musiche che immancabilmente troviamo nei film, che accompagnano le pubblicità televisive o che si diffondono attraverso i reparti dei centri commerciali.
Il Natale è il momento dell’anno che riesce in qualche modo ad evocare pensieri positivi e buoni propositi e IKEA, con lo spot televisivo realizzato per il Natale 2013, riesce a sintetizzare in pochi secondi quello che spesso non riescono a fare generazioni di registi cinematografici specializzati in film natalizi. Oserei dire neppure alcuni preti in mille oratori e dall’altare. Ebbene sì, l’ho detto. Non mescolo il sacro col profano ma analizzo e tendo a promuovere i media e i relativi contenuti capaci di diffondere sentimenti positivi e dare spazio agli affetti familiari. Oggi, arriva prima e in modo più incisivo “la parola” proferita da un pulpito di un altare o quella proveniente dai mezzi d’informazione digitale di cui siamo circondati? I nuovi profeti 2.0 lo sanno bene…
Che c’è di strano o di male se questi messaggi passano anche attraverso uno spot pubblicitario?
Credo che nella società in cui viviamo, nella quale siamo circondati da notizie negative che spesso sono caratterizzate da tragedie familiari, sia importantissimo trovare qualsiasi mezzo capace di contrapporsi al male attraverso messaggi positivi, o per chi vuol essere più critico, buonisti.
IKEA ha anticipato lo spot natalizio con uno precedente nel quale un bimbo trova nella propria famiglia il supporto necessario per poter raggiungere il proprio obiettivo (vedi post). Attraverso una sorta di metafora IKEA ci ha mostrato un quadro, pur contenente un messaggio pubblicitario, nel quale pochi secondi di televisione si trasformano in pillole di positività. Con “basta poco per crescere insieme” il precedente spot IKEA promuove i propri prodotti attraverso il valore delle “piccole cose”, dei gesti che apparentemente possono sembrare insignificanti ma che di fatto hanno una grande importanza, magari non apparentemente per chi li compie ma, almeno in questo caso, per colui che li riceve.
Immagine tratta dallo spot natalizio 2013 dell’IKEA
“Basta poco per vivere insieme il Natale“, ecco il messaggio che accompagna lo spot IKEA per il Natale 2013.
Solito ambiente familiare e solito bimbo attivo e pieno di energie, pronto a nuove sfide. Questa volta il piccolo uomo di casa si prepara per il grande evento: la notte di Natale. Come tutti i bimbi è emozionato e non sta nella pelle. Guarda dalla finestra, prepara il piatto di biscotti appena sfornati dalla mamma e li dispone accuratamente su un tavolo assieme ad un bicchiere di latte, come nella buona tradizione natalizia. Apre il divano letto e scrive un messaggio nel quale invita l’atteso ospite a “riposarsi qui”, indicandogli con un cartello il comodo divano letto, ovviamente IKEA, come tutto il resto degli arredi e complementi proposti nello spot, senza troppa ostentazione. Il nonno, come nel precedente episodio di quella che oramai possiamo definire la “sitcom Ikea”, osserva e poi aiuta il bimbo nei suoi propositi.
E’ tutto pronto, arriva la magica notte. Per un istante tutto si ferma, anche il brano musicale che accompagna lo spot. La nuova versione della famosa Deck the Halls realizzata appositamente per IKEA e cantata da Eleisha Eagle.
Il bimbo si alza dal letto, percorre gli ambienti della casa illuminati solo dal chiarore delle luci che provengono dalle finestre e dall’immancabile adorno, luccicante albero di Natale. L’ospite tanto atteso è finalmente arrivato e non è Babbo Natale, come si potrebbe pensare guardando per la prima volta lo spot. E’ il fratello più grande, altro punto di riferimento per il piccolo della famiglia. Con un caldo, emozionante, sussurrato “Ben tornato fratellone” il bimbo accoglie il proprio caro che rientrato nella notte, da chissà dove, giace dormiente sul divano letto. La lunga attesa è stata ampiamente ripagata e il piccolo protagonista torna contento verso la sua cameretta, o così si presume che faccia.
Immagine tratta dallo spot natalizio 2013 dell’IKEA
Ebbene, sì. La prima volta che ho visto questo spot mi sono emozionato e non mi vergogno a dirlo. Probabilmente è segno di senilità precoce o forse di un sana emozione che evidentemente può scaturire anche attraverso uno spot pubblicitario che i questo caso diventa un veicolo di positività. E’ quindi possibile comunicare sentimenti ed emozioni attraverso un messaggio breve e intenso, anche se creato per scopi commerciali.
E se purtroppo il Natale è diventato eccessivamente commerciale, ben vengano quegli spot in cui il Natale torna ad essere un momento speciale.
Brava IKEA e complimenti al team della AUGE, l’agenzia di comunicazione che ha creato questo spot.
Immagine tratta dallo spot natalizio 2013 dell’IKEA