In questi giorni gira sul web l’ennesima notizia sul’ennesima campagna pubblicitaria sessista che è l’ennesima dimostrazione di un cattivo modo di fare pubblicità, ecc., ecc..
Ne hanno parlato i media e nel farlo, ovviamente, tutti vengono “virtualmente assoldati” dalle agenzie di comunicazione che sperano in rivolte mediatiche altisonanti tese a denunciare il misfatto e che invece mirano, con nozione di causa, ad innescare il viral marketing.
Per i meno avvezzi al termine si intende marketing virale un messaggio di qualsiasi tipo, spesso visivo, che è studiato per essere facilmente divulgato attraverso l’opinione pubblica. Di solito tramite social network. Questo avviene principalmente quando il suddetto messaggio è intriso di provocazione, desta particolare curiosità, è estremamente divertente o trasferisce una forte carica emotiva che innesca “inevitabilmente” la condivisione. Da qui entra in gioco la rete che diffonde a macchia d’olio il messaggio attribuendogli un valore aggiunto che è quello dell’opinione personale, estranea al prodotto o all’azienda che lo ha realizzato o all’agenzia di comunicazione che ha ideato il messaggio. Talvolta con investimenti modesti si riescono ad ottenere dei “Passa parola” esponenziali e quel messaggio, magari inserito in un contesto locale, assume una forza incredibile divenendo fenomeno di facile condivisione, virale, a livello nazionale e talvolta internazionale.
Tornando alla famosa campagna pubblicitaria di cui sopra che ha fatto infervorare i perbenisti, arrabbiare le donne, sollevare gli animi della brava gente e, pure, alzare le mani ai sindaci che la ritengono “non offensiva”, credo che la questione debba essere affrontata in un altro modo.
Poiché la campagna pubblicitaria in questione prevede l’affissione pubblica di manifesti 6×3, ritengo che il dito vada puntato solo ed unicamente verso l’agenzia del territorio che autorizza le affissioni. Per chi non avesse mai fatto affissioni in vita sua, tengo a precisare che ogni manifesto affisso va preceduto da un’autorizzazione che a sua volta va preceduta da una richiesta di autorizzazione all’affissione e il pagamento di relativa tassa il cui importo varia sulla base delle quantità, formato dei manifesti e la durata della loro permanenza sugli appositi spazi. Le agenzie che si occupano di rilasciare il permesso di affissione e che riscuotono la tassa, sono tenute a verificare il contenuto del messaggio e sono loro stesse che devono eventualmente pronunciarsi se quel messaggio può o meno essere lesivo per qualcuno o contravviene alle più banali regole di decenza ed educazione. In tal caso dovrebbero richiederne la revisione o bloccarne l’affissione. Non si parla di censura ma di regole che in una società, detta civile, esistono e vanno applicate.
Le agenzie di comunicazione/pubblicità fanno il loro lavoro. Ci sguazzano in questi “casi nazionali” e lavorano spesso affinché questi meccanismi di “scandalo” si verifichino.
Pertanto, cari indignati. Non rifatevela con chi magari può aver esagerato con un certo tipo di comunicazione, con coloro che hanno osato, che magari hanno fatto leva sulle più banali regole della pubblicità in cui “sesso” fa rima con “successo”.
Adesso mi chiederete, dopo tutto questo popò di discorso, qual’è la pubblicità “sotto i riflettori”? Contribuirò anche io alla diffusione del messaggio. Lavorando nel settore ritengo che la regola del “non tutto il male viene per nuocere” valga sempre e che “il cattivo gusto” risieda spesso nella mente di chi lo vuole vedere. Fermo restando che questa pubblicità in particolare non eccelle in materia “buon gusto”. Ma così è e così vuol essere…
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