C’era una volta il Corona Virus

Arrivò da un Paese lontano, lontano per creare scompiglio e tanto baccano…

Eppure mi pare davvero una favola, forse a tratti inquietante, come ogni favola che si rispetti.

Non so ancora quale sia il finale, non è stato ancora scritto o non ci è stato raccontato, “ma è già un successo di pubblico a livello planetario”.

Abbiamo sentito ogni cosa su questo virus.

Ho fatto la collezione di affermazioni più o meno deliranti su come è nato e come si è diffuso; sull’emivita del virus che variava ad ogni telegiornale andando da un massimo di undici giorni, sugli oggetti toccati da persone infette, ad un minimo di pochi minuti; sulla ricerca del “paziente zero”; sulle scuole, musei, teatri e pure stazioni ferroviarie chiuse; sul coinvolgimento dell’esercito per gestire l’emergenza; sulle zone rosse…

Si è detto che è un virus altamente contagioso, pareva quasi che solo a pensarci ci si poteva infettare, poi ci è stato riferito che è difficilissimo da prendere declassandolo a “poco più di un’influenza stagionale”additando quest’ultima come responsabile di molti più morti (allora sì che stiamo tranquilli).

Ci hanno consigliato di usare la mascherina protettiva, sì quella che adesso costa come un foulard di una nota griffe di alta moda e che pareva fosse la panacea di tutti i mali mentre adesso, si sente dire, che serva solo se sei già infetto ad evitare di contagiare gli altri ma… se sei infetto, e non lo sai, evidentemente non la indosserai e se sai di esserlo, molto probabilmente, sei in ospedale o a casa in quarantena, quindi vedo poco utile l’impiego di questo dispositivo se non a farti notare dalla massa impaurita come il possibile untore.

Dimenticavo alcune raccomandazioni fondamentali: “Non toccatevi occhi, bocca e naso con le mani“, come se l’atto di toccarsi possa essere compiuto anche tramite proboscide, eventualità che in tal caso concordo che richiederebbe una puntualizzazione sull’uso dell’arto di cui sopra.

Comunque, non voglio aggiungermi alla lunga lista dei sedicenti esperti anche perché non sono un virologo, tantomeno un esperto virologo e nemmeno un opinionista o un giornalista.

Il giornalista… “figura mitologica”. Si narra che scriva articoli documentandosi, verificando le fonti, intervistando, facendo inchieste, agendo in prima linea e soprattutto seguendo un codice deontologico. Non generalizziamo, qualche bravo giornalista c’è ma resta una voce fuori dal coro e, come tale, “stona”. Viene messo da parte o invitato a “non limitarsi a riportare LA notizia reale perché non farebbe notizia”.

Oggi, in un mondo sempre più connesso, dove la notizia deve essere diffusa rapidamente – pena essere superati dalla concorrenza e non chiudere contratti con gli sponsor – è indispensabile scriverla ancora prima che la notizia sia tale e quindi ancor prima che l’evento di cui si parla sia accaduto.

Oggi la stampa si occupa di futuro, un po’ come faceva Tom Cruise in Minority Report. Attraverso un complesso sistema riusciva a prevedere gli omicidi e a fermare gli assassini prima che questi commettessero l’atto criminale.

Oggi la notizia deve essere sensazionale, deve rompere ogni indugio. I titoli devono essere dirompenti, parossistici, altrimenti non è notizia e soprattutto non vendi i giornali o non inchiodi il pubblico davanti allo schermo della televisione. I talk e gli speciali in tv non fanno che trattare l’argomento Corona Virus. Se ne straparla cercando di portare tutto sul piano del catastrofismo. Si intervista chiunque pur di catturare l’attenzione dello spettatore ma soprattutto per prendere del tempo durante il quale “sperare” che nel corso della diretta qualcuno cada a terra stecchito, magari accadrà pure, per stanchezza, o stroncato da un infarto per via delle lunghissime dirette, non certo per il virus; ma vuoi mettere riuscire a trasformare quella diretta in una cronaca in diretta?

Il brodo è sempre più annacquato e la notizia cresce, cresce, cresce e poi, ad un certo punto, tutto si sgonfia.

Da qualche ora pare che il Corona Virus non sia più così letale.

“Chi muore lo fa perché non aveva più voglia di campare. L’influenza stagionale fa più danni della grandine ed è tutta colpa dei cambiamenti climatici. Greta lo diceva ma voi non avete ascoltato le sue parole e adesso dovete farvi la coda ai supermercati per comprarvi 70kg di pasta – che si mangeranno le farfalle o le locuste, meglio quest’ultime, ai fini della notizia sensazionalistica – pur sapendo che l’indomani potrete trovarne altri 70kg, al solito supermercato perché di fatto non siamo, fortunatamente, né in guerra né in carestia”.

Detto ciò… se vogliamo davvero capire cosa accade ai giorni del Corona Virus, basta girare per le città e avere a che fare con le realtà lavorative colpite da questa piaga, questa peste o malattia dilagante che si chiama sciacallaggio mediatico, amplificato dai social network.

“Sto leggendo cose che voi giornalisti non avreste mai dovuto scrivere”, parafrasando parte di una celebre frase tratta dal film Blade Runner.

Sabato scorso, verso l’ora di pranzo, mi trovavo al centro commerciale I GIGLI a Campi Bisenzio (FI). Ripeto, sabato, giornata tipica per fare compre e altrettanto tipica per restare imbottigliati nelle code alle casse o in fila ai parcheggi di qualsiasi centro commerciale. Tutt’altro, c’erano pochissime persone e trovavi tutti i posti che volevi per lasciare l’auto.

A distanza di una settimana pensavo che le cose si sarebbero un po’ calmate o almeno che fossero rientrate in una sorta di “normalità”.Ieri sera, VENERDI, quindi serata di weekend, nuova giratina a I Gigli. Mi aspettavo di trovare un turbinio di persone e il solito clima da fine settimana. Invece… pareva un film di Romero dove i pochi sopravvissuti si guardavano l’un l’altro impauriti nell’attesa dell’arrivo degli zombie; nel nostro caso, almeno tra gli esercenti, il pensiero che ho interpretato era: “Siamo a fine mese e da almeno 15 giorni non battiamo chiodo… Affitto, tasse, stipendi…chi li paga?”. Questo era lo zombie che vagava tra le corti del noto centro commerciale.

Mia moglie ed io abbiamo cenato a “I Banchi”, l’area dedicata alla gastronomia, sita al secondo piano de I Gigli. E’ un luogo carino, a noi piace perché sviluppato con in format in stile “mercato” dove trovi varie specialità, per lo più preparate sul momento, che puoi acquistare e mangiare sul posto. Beh… Vorrei postare qualche foto e un breve video girato sul momento, VENERDI 28 febbraio, intorno alle venti per mostrarvi la situazione assurda che si è palesata ai nostri occhi. Evito di postare questi file perché potrei essere, io, denunciato per aver pubblicato foto non autorizzate dalla direzione del centro commerciale… Vi invito a credermi sulla parola, o meglio, vi esorto a non credermi e a tornare a frequentare I Gigli come tutti gli altri negozi della vostra città.

La paura è comprensibile, soprattutto se fomentata da chi dovrebbe informare e non terrorizzare ma, il mondo va avanti e il coraggio, non l’incoscienza, deve prevalere sulla paura.Tornate a frequentare teatri, musei e cinema. Fate solo più attenzione a come vi muovete cercando di mantenere un livello di igiene personale (generale, non solo per le mani) adeguato ad un popolo cosiddetto civile e in perenne contatto con molti suoi simili.

Lancio un appello ai comici italiani… C’è bisogno urgente di voi, più dell’Amuchina.

La gente ha bisogno di ridere perché ha paura e la risata è il miglior vaccino contro la paura. Comici italiani, fatevi sentire attraverso i social e tornando nei teatri, soprattutto in quelli più piccoli che in questo momento stanno durando una fatica pazzesca per restare aperti.

Invito le persone di cultura a fare cultura a dispensare pensieri positivi ad elevare la paura allo stato di bellezza parlando di arte e di sentimenti positivi.

Dopotutto la storia insegna: dopo periodi bui ne seguono altri di luce.

Che la risata sia con noi… Che l’ironia sia nostra maestra di vita. Che la bellezza pervada i nostri cuori e le paure ci insegnino ad apprezzare ciò che abbiamo e ciò che siamo, con tutti i nostri pregi e limiti, da persone libere e capaci di intelletto…

Questo è il finale che vorrei leggere di: “C’era una volta il Corona Virus”…

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Maggie diventa Contagious e forse anche “Celiacus”

Chi si aspetta di vedere Arnold Schwarzenegger nei panni del  “solito Schwarzy” ci resterà piuttosto male…

Contagious_PosterPassano gli anni per tutti, anche per i bodybuilder, per gli eroi, per gli uomini d’acciaio e anche per Arnold Schwarzenegger che come tutti avverte i segni del tempo. Intelligentemente, con Contagious, prova a rimettersi in gioco attraverso un ruolo di attore più consono alla sua attuale fisicità.

Ci prova, attraverso un processo di “deeroinizzazione”, ovvero tramite un percorso che lo porta ad essere “uno qualunque”, un padre che non necessariamente deve essere un eroe per forza (alla Turboman per intenderci) ma lo è nella misura in cui il ruolo del genitore lo porta ad essere per definizione “un eroe” nello svolgere il compito di proteggere il proprio figlio; in questo caso la figlia Maggie.

Arnold Schwarzenegger nel ruolo di Turboman da "Una promessa è una promessa"
Arnold Schwarzenegger nel ruolo di Turboman da “Una promessa è una promessa”

Si cala in un ruolo distante anni luce da quelli a cui siamo abituati a vederlo. In Contagious si priva di ogni corazza o massa muscolare e si veste di amore per la figlia e di speranza per una qualche regressione del necrovirus che ha infettato la sua Maggie.

Nonostante tutto, soprattutto nonostante gli sforzi di Arnold nel cercare di rendere credibile il suo personaggio, né “lui” né il film decollano mai.

La sceneggiatura, curata da John Scott, è portatrice sana (visto che si parla di virus) di numerose falle e la regia di Henry Hobson non riesce a supportare gli sforzi dell’attore, anzi, spesso lo rendono goffo più che provato dal dolore.

Anche la fotografia non convince affatto, basata su schemi ciclicamente ripetuti che vanno dalla quasi totalità delle riprese girate a mano con abuso di “mosso” alle inquadrature del soggetto decentrato su un terzo dello schermo, dai primi piani spinti in cui anche il poro della pelle pare diventare un canyon ai “fuori fuoco” che spesso non capisci se sono voluti o se sono errori di ripresa. Tutto nel vano tentativo di esasperare l’effetto di oppressione, di dramma, di coinvolgimento dello spettatore nella scena ma col risultato che ogni inquadratura stanca divenendo irrequieta, nervosa e difficile da cogliere e da apprezzare.

Lo spettatore non chiede tanto se non di assistere a una storia che abbia un capo e una coda ma ciò a cui assiste è un film “buttato là” che appare come un contenitore che funge solo da pretesto per celebrare un nuovo modo di essere attore per Arnold.

Contagious o Maggie – questo sarebbe il titolo originale del film che ricalca il nome della figlia di Wade Vogel (Arnold Schwarenegger) interpretata da Abigail Breslin – è sempre lì, non va né avanti né indietro innescando nello spettatore un senso di perenne attesa nella speranza di poter assistere, prima o poi, a uno sviluppo o a un colpo di scena che non solo non arriva ma l’attesa finisce per sfiancare portando lo spettatore alla noia e alla stanchezza.

Contagious pare un sequel di se stesso ma con tutte le lacune che si provano a vedere un sequel senza aver visto il prequel.  Tutto è accennato come se ci fosse già stato raccontato in una pellicola precedente guardandosi bene dal dare spiegazioni plausibili e sufficienti per comprendere le origini del dramma.

Si passa da scenari post apocalittici in cui la città, i negozi, gli edifici sono distrutti a situazioni opposte in cui tutto funziona perfettamente, compresi gli smartphone e i servizi pubblici come gli ospedali e le forze di polizia.

Si passa da una città sotto la legge marziale e coprifuoco a un’allegra gita fuori porta tra amici al chiaro di luna, con tanto di tende e zombie tra gli invitati, tra cui Maggie e il fidanzatino Trent (interpretato da Bryce Romero, il cui cognome è tutto un programma), entrambi palesemente infettati ma ancora non zombie da essere pericolosi. Amici sani e malati tutti insieme appassionatamente al campeggio a celebrare vecchi momenti, a parlare di scuola e di futuro ma anche dei compagni e dei professori che non ci sono più perchè oramai deceduti per aver contratto il necrovirus. Ci scappa pure il bacio tra zombie e poi, all’alba, tutti a casa per continuare la propria vita, chi da sano, chi da zombie.

Contagious
Contagious

Si parla di un periodo d’incubazione del virus che mediamente si sviluppa nell’arco di otto settimane, chi più e chi meno, e che l’ultima fase viene di fatto gestita sotto lo stretto controllo del sistema sanitario che obbligatoriamente impone ai “soggetti infetti” lo stato di quarantena coatto in ospedale; fase che poi li accompagnerà alla morte. Durante queste meravigliose otto settimane, tutto è più o meno “normale”, puoi tenerti lo zombettino a casa tua, dargli da mangiare quando ha fame o non darglielo quando non ha fame. L’importante è che tu segua le indicazioni rilasciate dalle autorità sanitarie attraverso l’opuscolo informativo che ti spiega tutto. Se poi lo zombettino ti annusa un po’ troppo di frequente, scambiandoti per una bistecchina alla brace, allora preoccupati, forse il morso ci può scappare ed è arrivato il momento di telefonare alle autorità sanitarie per chiedere di venirselo a prendere…

Non si diventa zombie a caso ma non ci è dato sapere come tutto sia cominciato né come si sia diffuso il necrovirus pandemico. Si fa cenno a qualcosa che viene dal grano, “tanto è vero che ad un certo punto ho pensato che si trattasse di un’evoluzione della celiachia, ribattezzando questo blob in Celiacus” ma poi pare che si propaghi attraverso i morsi di altri contagiati. “Resta però da capire se è colpa di qualche seme di grano modificato OGM della Monsanto o se ha altre origini”. Per non sbagliare, intanto, diamo fuoco ai campi di grano, poi si starà a vedere.

Ecco, nella scena in cui Arnold si decide a dar fuoco al proprio campo di grano (ebbene sì, pare che in questo film faccia il contadino o almeno lo faceva prima dell’epidemia), ho avuto per un attimo un sussulto, una fievole speranza che il film volgesse al meglio. Ho intravisto l’autocelebrazione della famosa scena in Predator in cui Dutch (Arnold Schwarzenegger) attrae Predator per affrontarlo nella battaglia finale dando alle fiamme una torcia e cacciando un urlo primordiale col quale squarcia il silenzio e le tenebre della giungla.

Speranza che di lì a poco si è trasformata in una totale delusione. Il regista non ci dà neppure la “soddisfazione” di vedere la torcia volteggiare sul campo di grano per poi rovinarsi a terra ed incendiarlo. Ci lascia con un “cerino in mano” (è il caso di dirlo) in cui un istante prima si vede Arnold con la fiaccola in mano e l’istante dopo il campo in fiamme; neppure il “gesto atletico”, nessun urlo di disperazione e sfogo per la situazione, nessun Predator -per carità- ma non veniamo neppure ricompensati da una proverbiale e sempre gradita apparizione della “mandria” di zombie incazzati e arrostiti che sfumacchianti avrebbe potuto avanzare incontro ad Arnold arricchendo un po’ il brodo… Nulla, tutto resta immutato, tranne il campo di grano che finisce in fumo e con lui ogni speranza di poter vedere una qualche scena, non dico azione ma almeno, un po’sopra le righe.

Probabilmente questa è l'unica scena in cui la macchina da presa è posizionata su un cavalletto.
Una delle poche, forse l’unica scena in cui la macchina da presa è posizionata su un cavalletto.

Contagious non è un action movie, non è nemmeno un film di zombie alla Romero o alla Walking Dead. Non è nemmeno un film di dell’orrore… insomma, non so cosa può essere. Ci sono gli zombie, pochi, troppo pochi e non sono comunque loro i protagonisti. Non ci sono scene terrificanti o un po’ spaventose o al limite un po’ splatter, nulla di tutto questo.

C”è un padre abbrutito con una figlia zombie e adolescente (non si sa quale sia il male peggiore) che non perde un etto nonostante la “zombite acuta”.

Ci sono campi di grano dati alle fiamme, ovunque e sempre fumanti.

C’è un vecchio furgone pickup, con la cinghia da registrare che cigola, che probabilmente piaceva tanto alla precedente moglie di Wade Vogel, ovviamente morta.

Ci sono due poliziotti, uno buono e uno scemo.

Ci sono dei vicini di casa e degli amici che non si sa bene come siano finiti nella storia.

C’è il fidanzatino di Maggie la cui presenza rende Contagious più simile ad un film stile “american idiots” che ad un film drammatico.

Ci sono dei medici, alcuni con mascherine anti contagio e altri che visitano inalando l’aria espirata dai pazienti infetti come se non potessero essere a loro volta infettati per via aerea.

C’è lui, Arnold… lo si accetta, quasi lo si sopporta ma non gli si riesce a perdonare la totale mancanza di quell’adrenalinico momento di rivalsa che lo ha sempre caratterizzato nei suoi personaggi. E’ lì, poi sparisce per un po’, non si sa dove sia finito, poi riappare, piange, vaga solitario, ha piantato le margherite nel nulla, o meglio, in un luogo che il regista vuol farci passare per “il giardino della moglie morta” ma che si trova in mezzo al bosco. Abbraccia la figlia, sospira, mostra le rughe, tante, forse anche troppe. Talvolta pare che sia lì per sovvertire quel sistema che impone la fase di quarantena a cui, prima o poi, si presume dovrà privarlo definitivamente della figlia ma… non lo fa mai. Sì, fa pure a botte con uno dei poliziotti, quello scemo, ma solo perché costretto, appunto, dal gesto scemo dello scemo.

Arnold è’ sempre lì, sono uscito dal cinema e lui è rimasto lì. Maggie fa quello che deve fare ma lui è lì. Sono convinto che Arnold sia ancora lì, adesso.

Trailer italiano:

In conclusione, Arnold ci ha provato. Forse per qualcuno ci è pure riuscito, per me no. Non bastano delle lacrime e un volto segnato dal dolore (o dai reumatismi) per trasformare un attore d’azione di successo planetario in uno drammatico. L’unica cosa “mostruosa” che ha questo film è la noia che riesce a trasmettere nello spettatore che diventa virale a tal punto che lo spettatore stesso, all’uscita del cinema, viene scambiato per uno zombie.

Trailer originale:

Approfondimenti:

THE URBAN DEAD – Liberi di volare o imprigionati senza saperlo?

Nasce dalla passione per la serie televisiva The Walking Dead.

Guardi gli episodi, ne apprezzi gli sviluppi narrativi, la fotografia, la musica, i personaggi e in qualche modo comincia a sedimentare nel tuo subconscio contribuendo ad arricchire il tuo bagaglio culturale.

Poi dall’altra parte vivi il quotidiano fatto di tante cose, di svariati momenti trascorsi anche nella tua città, fatta di strade, negozi e scorci che ti restano impressi nella mente per ciò che sono e che riescono a comunicarti.

Sommi la passione per il cinema e la tv, in questo caso per The Walking Dead, e ne esce un esperimento creativo che si colloca tra un omaggio alla serie televisiva e una “denuncia” nei confronti del “degrado urbano” di cui siamo silenti testimoni e protagonisti ogni giorno.

The Walking Dead parla di sopravvissuti che tentano di mantenersi in vita nonostante la presenza di un “virus” pandemico che rende i morti degli zombie.

Ho visto un’analogia tra gli zombie di The Walking Dead, i sopravvissuti che tentano di rimandare la loro sorte – apparentemente inevitabile se non trovando il modo “preventivamente” di spappolarsi il cervello per evitare che “lo zombismo” prenda il sopravvento una volta defunti – e la nostra civiltà.

Viviamo tutti insieme nelle città ma allo stesso tempo siamo distanti anni luce l’uno dall’altro. Non parliamo, o poco, con i nostri vicini di casa. Ci scansiamo se vediamo qualcuno che “all’apparenza non ci piace”, che “è diverso”. Siamo diffidenti, releghiamo le nostre vite ai social network preferendoli spesso al rapporto umano diretto.

La città è un concentrato di umanità dissociata che non interagisce, spesso si sopporta a malapena.

Cerchi di spostarti in auto ma è traffico ovunque. Ti suonano il clacson se non riparti immediatamente dopo il verde o se ti sei fermato appena vedi il giallo. Passi ore in fila a respirare smog, ad abbrutirti all’interno dell’abitacolo della tua vettura. Quando riesci a muoverti osservi la città, vedi il degrado urbano, i negozi chiusi perché la crisi si è mangiata anche quella speranza che ti permetteva di “tenere duro”, di vedere la luce in fondo al tunnel. Oggi si ha l’impressione che si sia mangiata anche il tunnel e la relativa luce.

Vedi i barboni nel centro della città vagare in cerca di qualcosa o di qualcuno a cui affidare la propria sopravvivenza.

Meretrici asiatiche che si aggirano nelle piazze e per le vie del centro, in pieno giorno, in cerca di un profitto da una botta e via.

Auto abbandonate lungo le strade o nelle piazzette adiacenti ai condomini o addirittura davanti la caserma dei Vigili del Fuoco.

Il mio amico Francesco, durante una pausa mentre realizziamo le riprese di THE URBAN DEAD. L'auto è parcheggiata, abbandonata, davanti la caserma dei Vigili del Fuoco di Prato (sullo sfondo).
Il mio amico Francesco, in una pausa durante le riprese di THE URBAN DEAD. L’auto è parcheggiata, abbandonata, davanti la caserma dei Vigili del Fuoco di Prato (sullo sfondo). Foto scattata il 6.6.2015

Rifiuti ovunque, arredi urbani decadenti privi di manutenzione o completamente abbandonati al degrado.

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La chiamano civiltà, una parola che risuona in modo roboante se pronunciata all’interno di un contesto pubblico, magari durante qualche discorso fatto da un palco sul quale si alternano politici, massmediologi o sedicenti esperti di qualcosa.

Abbiamo esasperato il nostro modello di “CIVILTA'” deformandone il significato.

The Urban Dead - Stefano Saldarelli

Il mio THE URBAN DEAD fotografa un lato della mia città, Prato, ma rappresenta anche “il lato oscuro” di molte altre città METROPOLITANE – adesso si chiamano così – sparse per il nostro stivale (e non solo).

Metropolitane… fa più figo chiamarle in questo modo, edulcora la decadenza dilagante proiettandole in uno futuro lastricato di demagogia e di appalti che non guardano di certo all’interesse dei cittadini. Cementifichiamo all’insegna del progresso snaturando sempre più il rapporto tra uomo e natura, come se l’uomo di per sé non facesse parte di questo grande e delicato sistema che si chiama NATURA.

Siamo parte di un grande sistema e anche le cose che ci appaiono piccole o “insignificanti” hanno delle ripercussioni su scala globale.

Siamo la civiltà che respinge gli immigranti o che deve discutere con le DEMOCRAZIE CIVILI per stabilire le sorti di poveri sciagurati, diventati tali per mano dei governi di quei Paesi che adesso rifiutano il prodotto del loro stesso operato.

Siamo la civiltà che emargina gli emarginati, che produce emarginazione e che istiga alla solitudine.

Siamo la civiltà che si adopera per arricchire i ricchi e impoverire sempre di più le classi meno abbienti.

Siamo la civiltà delle contraddizioni che sviluppa il proprio benessere attorno al concetto di CONSUMO, che di per sé è un termine negativo e che di fatto può solo produrre cose negative.

Siamo la civiltà delle persone che muoiono per l’inquinamento, per mafia, per corruzione, per affari sporchi che partoriscono cantieri e altri appalti mangia soldi.

Siamo l’Italia di Italia ’90 – per partire con un esempio tra i tanti – che passa poi dai Mondiali di nuoto di Roma, alle Olimpiadi invernali di Torino, con l’esperienza di Tangentopoli che crea il modello degli scandali di Roma Mafia Capitale, Mose di Venezia, Expo 2015

Allora mi chiedo… chi è più ZOMBIE? Chi sono i “veri morti viventi”? Noi o quelli delle fiction o dei comics?

THE URBAN DEAD – Liberi di volare o imprigionati senza saperlo?

Questo è il mio THE URBAN DEAD:

 

Questo è l’intro della serie televisiva The Walking Dead da cui ho preso ispirazione:

e adesso… tutti a vedere I Griffin per sdrammatizzare un po’ 🙂


 

Approfondimenti e crediti:

  • The Walking Dead – sito ufficiale 
  • La traccia audio utilizzata nel video è: Main Title Theme Song (UNKLE Remix) – The Walking Dead Soundtrack – Bear McCreary
  • The Walking Dead su Wikipedia
  • Le riprese di THE URBAN DEAD sono state realizzate con Smartphone SONY Xperia Z e NIKON D5200 – Montaggio video con SONY VEGAS 12
  • Ringrazio Antonella Manganelli (mia moglie) e Francesco Galati (grande amico) per l’assistenza e il supporto materiale e morale nello sviluppo di questo progetto.