Comfort Zone Vs. Scomfort Zone

Esistono le zone di comfort.

Lo so, le conosci e probabilmente anche tu ne hai qualche “confezione da 6 lattine” nella tua credenza.” Non ho usato a caso la parola credenza in virtù del gioco di parole; porta a pensare ad un luogo ove riporre le cose, spesso quelle di cucina, ma anche “credenza” nel senso di credere che vada bene così.

La zona di conforto, o comfort zone, è largamente conosciuta dai più e si palesa grazie a tutta una serie di meccanismi che il nostro cervello mette in campo. In primis, l’omeostasi, ovvero, “l’equilibrio perfetto” teso a conservare l’energia al variare delle condizioni esterne. In altre parole, succedono cose e tu fai il minimo indispensabile o anche nulla per evitare un dispendio energetico (puoi leggere anche: evitare la fatica o evitare di prendersi delle responsabilità, che poi una condizione non esclude l’altra). E’ un meccanismo che abbiamo tutti; ogni essere vivente tende a conservare la propria energia, ad evitare di disperderla o farlo in minima parte, qualora le condizioni ambientali dovessero richiedere un qualche minimo sforzo; ed è quello che al massimo mettiamo in campo. La famosa “azione-reazione” che ci permette di fuggire dal pericolo o, se proprio ne vale la pena, di avvicinarci al piacere.

Nel mondo del lavoro esistono figure mitologiche che hanno conseguito un master in comfort zone (senza fare molto, ovviamente). Sono quelli che fanno solo quello che è strettamente indispensabile. Non promuovono alcuna azione o avanzano alcuna proposta, anche se tesa a migliorare la propria condizione e quella dei propri colleghi. “Ma perchè devo essere io a dirlo/farlo, ci devono pensare loro”, dove quel “loro”, spesso, è riferito ai dirigenti, datori di lavoro o al capo reparto. Aspettano l’orario canonico per timbrare il cartellino e sognano la pensione INPS a partire dal primo giorno di assunzione. Sono coloro che fondano la propria esistenza sul concetto del “Chi me lo fa fare di cambiare” oppure “Le cose sono sempre andate così, perchè devo essere io a cambiarle” o anche “Oramai, cosa vuoi che faccia alla mia età” (e magari hanno 40 anni), “Ho un lavoro sicuro, ma figurati se mi licenziano o figurati se la ditta fallisce” e ancora “Sto proprio bene così, ho un datore di lavoro che mi paga e che ha tutte le responsabilità”. Poi, la madre di tutte le giustificazioni “Sono fatto/a così, NON posso farcela”.

Immagine realizzata con Leonardo.ai

In altri ambiti, come il benessere e la salute personali, accade anche di sentire: “Sono sovrappeso ma dopotutto piaccio così. Grasso è bello. Non capisco proprio quelli fissati che vanno in palestra. Sono così di costituzione, non posso farci nulla”.

E nell’amore e relazioni sociali? “Le donne/uomini sono tutti uguali. Non mi innamorerò mai più. L’amore non fa per me; oggi con una/o, domani con un’altra o altro ma poi sai cosa? Alla fine sto proprio bene da solo/a. Non sono fatto/a per i legami duraturi…”

La comfort zone è comfort, quindi comoda; utile per mantenere lo status quo; smart se consideriamo che spesso si avvale di un divano e di un telecomando; evergreen, poiché può essere applicata ovunque e per sempre o per periodi lunghi abbastanza da consentire a coloro che si sono “arredati la propria comfort zone”, di trovare una comfort zone all’interno della comfort zone; non passa di moda.

Lavora otto ore al giorno, torna a casa, il fine settimana vede gli amici. Il martedì esce un nuovo episodio della sua serie preferita, quindi se ne resta a casa e, se qualcuno gli chiede di uscire di giovedì, gli dice che ho troppo da fare. Più o meno questo è il profilo tipico, o uno dei tanti, del comfortzonista.

Altri adepti comfortzonisti che praticano la stessa fede sono quelli che da anni vanno in vacanza insieme con i propri simili. Quelli che si vedono al bar tutte le sere. Si creano un habitat adeguato allo scopo che gli permette di vivere in una sorta di biosfera all’interno della quale la percezione della loro realtà si autolimita a sommo studio, proprio per evitare di avere elementi di confronto esterni, termini di paragone che possano indurre al “desiderio di cambiamento”. Insomma, sono immersi fino al collo in questo brodo primordiale fatto di apparenti certezze ma calde come una coperta in pile.

Come biasimarli. Sono convinto che molti di loro stiano pure bene e forse sono anche appagati per quello che fanno (o non fanno) e per la loro condizione di vita in generale. Non critico ma osservo.

Poi… esistono le zone di scomfort.

Immagine realizzata con Leonardo.ai

Sono erette dai muri dell’autocommiserazione, della sofferenza intesa come status mentale attraverso il quale chiedere continue attenzioni e porsi in una posizione di “perenne riguardo nei propri confronti”. Sono quelli che “stanno male” anche quando non stanno male. Sono quelli che “Oggi non è giornata, ne riparliamo domani” o anche quelli del “Il medico non mi prescrive nulla, non mi capisce” o anche “Mia suocera, mia moglie, mio marito… mi fa impazzire. Non ne posso più!” e non parlano del loro disagio con i diretti interessati ma lo fanno solo all’esterno, con altri, per attingere dalla fonte della compassione, somministrata da qualcuno al quale inevitabilmente prosciugano ogni energia. Sono creature che vivono nello sconforto perenne dal quale non escono mai perchè è diventato la loro zona di comfort. E’ scomodamente utile e a suo modo anche comoda nella misura in cui permette di evitare di fare, invocando “dolori, malesseri, disagio, incomprensione, fraintendimenti, ingiustizie…”. E’ quel luogo di sofferenza intriso di vittimismo che frena ogni possibile evoluzione verso il piacere o verso la direzione della non sofferenza. Chi si erge paladino della scomfort zone va oltre il mero masochismo; è una condizione di necessità che alimenta uno status di continua “osservazione” da parte di terzi spesso finalizzata a richiede esoneri continui da ogni genere di cosa. “Non vado alla riunione perchè non sto bene. Non esco perchè poi prendo una frescata, lo sai che soffro di dolori. Non vado con le amiche perchè poi sono tutte uguali, fanno tardi, guardano gli uomini e si atteggiano; io non sono mica come loro. Volevo andare anche io a quella inaugurazione, ci tenevo tantissimo ma poi mi è venuta una ..ite* o una …gia**”

  • *potete usare tutti i prefissi che volete per completare la frase, come: tonsill… trache… ot…, etc.
  • **in questo caso: nevral… aller… sciatal…, etc.

I praticanti della scomfort zone hanno dalla loro l’abbruttimento. Sono demoralizzati, delusi della vita ma nonostante tutto guai a far qualcosa per uscire da quella condizione. Amano ricevere attenzioni. Quelli più bravi sono capaci di gestire il livello di malessere in virtù dell’interlocutore. Se trovano quello che ascolta, l’empatico, è finita. Quest’ultimo può prendere le ferie per farsi vomitare addosso tutto il malessere di cui questi esseri sono capaci di generare e riversare sul malcapitato. Se poi trovano quello più diretto, di poche parole ma buone, tipo: “Ma dai, poi passerà” oppure “Ma figurati, non è niente” o anche “C’è di peggio, dai!” lo stesso scomfortzonato tende a defilarsi in fretta perchè non trova in quell’interlocutore un degno uditore (o vittima sacrificale).

La madre di tutti i confronti avviene tra due praticanti seriali della scomfort zone. Se si incontrano scatta il derby.

Gli astanti restano basiti per la capacità di ogni contendente di lanciare in porta i propri malesseri col preciso intento di sopraffare l’avversario e prosciugarlo delle sue già scarse energie. L’ipocondria è il commissario tecnico e la commiserazione è la curva di tifosi. Il derby ha inizio; scatta la frase di tutte le frasi, quella che dà ad inizio partita il vantaggio assoluto. E’ questa: “Ciao, come stai?” E’ finita… il vantaggio è già segnato. Mentre uno dei due la dice, già se ne pente, sa benissimo a cosa sta andando incontro. La risposta che ne deriverà sarà più o meno impostata così: “Non puoi immaginarti cosa mi è successo…”. Da questo punto in poi parte il monologo di trenta minuti dove l’avversario, impietrito, può solo annuire e tentare di inserirsi, in modo sommesso: “Mi dispiace” o “Ti capisco bene perchè anche io…” ma non ce la fa. L’altro è più forte e rincara la dose, non lo fa penetrare nel discorso. Ha finito di elencare i propri problemi e inizia attingere dalla panchina avvalendosi di tutti quelli della madre, del figlio, del marito/moglie/suocero/suocera e come se non bastasse, tutti i problemi del lavoro, dei clienti, di chi non paga e di come si stava meglio quando si stava peggio… “Piove governo ladro!”

Il match finisce per ritiro dell’avversario. Uno deve arrendersi ma lo fa con onore e sa benissimo che tornando a casa potrà usare quell’esperienza come portfolio. Sarà l’ennesimo argomento da utilizzare con altri e che potrà aggiungere alla lunga lista di caz.. da raccontare, anche a se stessi, che si riproducono e vivono in simbiosi con gli scomfortzonisti.

A loro modo “ci stanno bene” in questa condizione di scomfort. E’ il loro mondo, la loro biosfera, al pari di coloro che vivono nella comfort zone. Sono apparentemente due condizioni opposte ma simili per molti versi. In un caso si fa poco o nulla ma si sta bene così e nell’altro “si soffre per volontà divina. E’ il destino che l’ha voluto. Ma che ci vuoi fare, è la vita.”

Immagine realizzata con Leonardo.ai

Entrambe le condizioni fungono da catalizzatori per permettere di non affrontare i cambiamenti, anzi, si auto esonerano fin da subito da qualsiasi pensiero teso verso il cambiamento. Non ci provano, vivono così nel loro blob con l’aggravante che entrambi additano coloro che fanno qualcosa, un minimo per cambiare, per mettersi in gioco, per risolvere qualche problema e vivere secondo un principio di evoluzione, seppur relegato ad un concetto temporale più breve rispetto a quello evoluzionistico-antropologico poiché, nel nostro caso, relegato all’interno dalla nostra singola esistenza. Evolversi, progredire, cambiare, andare verso… sono concetti che richiedono impegno, fatica, attitudine e soprattutto visione. Una visione che si concretizza in un forte “perchè” che a sua volta permette di dare un senso a ciò che si va a realizzare e permette di pianificare nel tempo. Fare non basta, occorre dare una connotazione temporale a quel fare altrimenti diventa una missione di vita che non trova soluzione di continuità.

Scomfort e comfort zone sono caratterizzate da un fraseggio depotenziante, parole instillate fin dalla scuola che agiscono da freno, da guinzaglio oltre il quale non è possibile spingersi: “Non posso, non riesco, non ce la faccio, non sono capace, non fa per me, non ho tempo…” oppure “E’ troppo difficile, impossibile, faticoso, dispendioso, impegnativo…” sono valenti alleate nel mantenimento dello status quo, di quella “omeostasi in cattività” che permette di auto relegarsi in recinti percettivi.

Sul questo argomento vi invito a seguire Elisa Renaldin che ha sviluppato un percorso interessantissimo per “evadere dai propri recinti percettivi.”

Questo post non intende spingersi nei meandri della psiche umana né dare indicazioni terapeutiche ma ha lo scopo di farvi riflettere, di analizzare il vostro comportamento al fine di capire se vi siete infilati in una delle due “sindromi zonali”.

E’ facile essere coinvolti e travolti da una delle due zone senza nemmeno averlo capito. Fa parte della natura stessa delle zone di comfort o di scomfort. Il primo passo è capirlo. Ti riconosci in ciò che ho descritto? La tua vita è ferma, bloccata da una “ganascia percettiva” che non ti consente di evolverti? Bene. Capirlo è il primo passo. Il secondo è prendere un quaderno o un blocco degli appunti sul quale scrivere un obiettivo. Non ho detto tre o trenta o trecento ma uno soltanto. Qualcosa che non hai mai fatto e che avresti voluto fare ma che hai condito, come si fa con le patatine con la salsa ketchup, con una massiccia dose di frasi depotenzianti che ti hanno convinto che quelle patatine sono buonissime così. Peccato che tutta quella salsa non ti fa apprezzare il vero sapore di quel cibo e che ti sei convinto che il sapore delle patatine sia quello del ketchup. Una volta aver scritto il tuo obiettivo descrivi brevemente come vorresti o potresti raggiungerlo. Fissa una scadenza, senza la quale non sarebbe possibile ottenere alcun risultato; “entreresti gratis al festival dei procrastinatori con VIP Pass”. Una volta scritto l’obiettivo (plausibile, veritiero, tangibile), aggiungi una breve descrizione in merito a come vorresti raggiungerlo e il tempo entro il quale ti impegni ad ottenere quel risultato. Trova un testimone, una persona a te fidata, esterna alla tua comfort o scomfort zone e chiedile di fare da testimone. Non deve fare molto se non assicurarsi che una seconda copia di quel foglio, firmata da te e da lui/ei, entri in suo possesso. La deve solo custodire e, in prossimità della scadenza, verificare se i tuoi propositi si stanno realizzando. Al termine, se l’obiettivo è stato raggiunto, oltre ad essere fiero/a per questo, FESTEGGIA! Goditi il momento. Poi poniti un nuovo obiettivo, un po’ più ambizioso del primo. Continuando su questa strada potrai progredire, uscire dalla tua “zona”, qualsiasi essa sia, e ambire a qualcosa di più.

Semplice? Nient’affatto ma…

“Non hai bisogno di vedere l’intera scalinata. Inizia semplicemente a salire il primo gradino.”
MARTIN LUTHER KING

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